Museo Diocesano della Spezia

Il Museo Diocesano della Spezia è allestito all’interno del quattrocentesco Oratorio di San Bernardino, santo toscano canonizzato nel 1450 da Niccolò V.  La chiesa, primo edificio che si incontrava entrando in città da Porta Santa Maria, era costituita da un’unica navata con copertura a capanna e un campanile collocato vicino all’abside. Nella parte posteriore si apriva un piccolo vano, sopraelevato rispetto al piano di calpestio dell’aula, (oggi sede del Tesoro del Museo Diocesano) destinato al coro o all’ospitalità. L’edificio fu sede della Confraternita intitolata a San Bernardino, attiva fino al 1812, anno in cui un decreto napoleonico sciolse la casaccia che divenne di proprietà del Municipio. Usato prima come magazzino, poi come sede del Consiglio Comunale e in seguito dalla Pubblica Assistenza, l’immobile subì nel giro di breve tempo numerose modifiche che andarono a celarne la struttura quattrocentesca e lo inserirono nell’assetto urbanistico ottocentesco. Le ultime modifiche vennero attuate nel 2000 per la trasformazione in sede museale. Il Museo Diocesano propone un percorso che racconta e ricostruisce il cammino storico e religioso del territorio attraverso la raccolta di documenti e di opere provenienti da edifici religiosi e non religiosi tuttora esistenti o scomparsi. Attraverso l’esposizione organica di dipinti, sculture e oggetti liturgici che sono parte integrante del percorso della Chiesa e continuano a esercitare, anche nella nuova collocazione, la loro funzione di testimonianza di arte e di fede, il museo si pone come custode della storia della Diocesi mantenendo viva e presente una spiritualità che affonda le sue radici nella Luni del IV secolo.


Calice

Argentiere parigino

1532-1533

Argento fuso, cesellato, sbalzato e dorato con smalti traslucidi


Quest’opera eccezionale, da sempre amata dalla popolazione, proviene dalla parrocchia di Sant’Andrea di Levanto. La tradizione narra che il Calice venne donato alla Chiesa dall’esponente di un’antica famiglia levantese, Giovanni Gioacchino Da Passano (1465-1551), che fu ambasciatore di Luisa di Savoia alla corte di Enrico VIII d’Inghilterra. Il calice, di indubbia committenza regale, risulta essere opera di manifattura francese e risponde alla cultura orafa della fine del Quattrocento, anticipando le novità del ricchissimo apparato decorativo rinascimentale. Il prezioso manufatto di misure imponenti, presenta una base a dodici lobi con placchette in smalto lucido figuranti profeti. Tutti gli elementi verticali del calice, nodo, fusto e raccordi tra le parti, sono fittamente decorati e cesellati con palmette, ghirlande, cesti d’acanto ed elementi tortili. Sulla circonferenza del nodo sono incastonate placchette ovali figuranti gli apostoli, mentre sulla coppa si alternano grandi foglie d’acanto e d’alloro che salgono fino all’orlo liscio e lucido. Tutti i motivi decorativi si stagliano lucidi sui fondi resi opachi da minute puntinature. Il programma iconografico del calice è chiaro: i Profeti sulla base rappresentano il Vecchio Testamento e sono il fondamento dal quale nasce il Nuovo Testamento rappresentato dagli Apostoli posti sul nodo.


Ecce Homo

Anton Maria Maragliano (bottega)

XVIII secolo

Legno scolpito dipinto e dorato


Quest’opera lignea si riconduce al contesto settecentesco del Barocco Genovese, e si attribuisce alla bottega di Anton Maria Maragliano che svolse un ruolo di grande evidenza nella cultura figurativa del capoluogo ligure tra la fine del ‘600 e la metà del ‘700, lasciando poi una eco produttiva e prolifica che permise di trovare oggetti prodotti “alla maniera del Maragliano” fino all’800. La scultura, destinata alla devozione privata in cappelle gentilizie o in conventi, rappresenta un Ecce Homo che riprende la forma rappresentativa contemplativa e devozionale a mezzo busto con i simboli iconografici tipici. Il carattere intensamente drammatico e teatrale del soggetto e la forte ricerca realistica mostrano quanto il maestro genovese e la sua bottega abbiano saputo rielaborare le proposte più innovative della grande decorazione pittorica genovese. Il suo linguaggio suscita stupore e compassione attraverso gli effetti materici delle ferite resi con sapiente tecnica pittorica che rappresenta insieme alla forma scultorea un unicum linguistico strettamente unitario. Il Maragliano con ricettiva sensibilità e intelligenza e con le sperimentate capacità tecniche che apprese dalla sua formazione di intagliatore, ha dato vita a nuove possibilità di rappresentazione di un gran teatro sacro che si poneva nel vivo svolgersi della celebrazione liturgica e del rituale processionale.


La Famiglia della Vergine

Giovanni Andrea De Ferrari

1630 ca.

Olio su tela


La tela proviene dalla chiesa cittadina di Nostra Signora della Salute, ove giunse nel 1919 come è registrato da Ubaldo Mazzini nel Giornale storico della Lunigiana, nel quale si legge:

Nel mese di maggio u.s. la chiesa parrocchiale di santa Maria della Scorza alla Spezia, ha ereditato una grande tela secentesca […] rappresentante la Vergine giovinetta […]. Il quadro ancora ben conservato è di ottimo pennello. Non ci è data possibilità di sapere la provenienza e le vicende di quest’opera d’arte

Si tratta di un’opera realizzata da Giovanni Andrea De Ferrari presumibilmente nel terzo decennio del ‘600, come dimostra lo stile ascrivibile alla maturità dell’artista, caratterizzato dalla recezione della pittura fiamminga sia nell’uso della stesura pittorica a velature sia nell’attenta resa dei particolari. L’artista dipinse quadri sacri, paesaggi, nature morte e animali secondo una pittura ricca di colore e d’impasto, trovando nella vena realistica e nei temi popolareschi la sua espressione più viva. L’opera rappresenta la famiglia della Vergine riprendendo un’iconografia insolita, dove apparentemente la Madonna fanciulla reca fiori ai genitori seduti uno accanto all’altro, sebbene in realtà i due gruppi sembrino essere separati tra loro. La Vergine viene illuminata di luce divina da angeli che le gettano i fiori che lei raccoglie e poco distante Sant’Anna e San Gioacchino dialogano in un atteggiamento commosso e intimo. L’opera è caratterizzata da una forte sentimentalismo e dall’interesse per l’analisi psicologica nei volti e nella gestualità.


Tabernacolo ligneo

XVI secolo

Legno dipinto e dorato


Il preziosissimo tabernacolo architettonico ottagonale è un’opera del ‘500 e risponde alle disposizioni costruttive che vennero ribadite dopo il Concilio di Trento da San Carlo Borromeo nel suo Istruzioni sull’edilizia e la suppellettile ecclesiastica dove scrisse:

la sua forma sarà ottagonale o rotonda, come più parrà adatta per decoro alla forma della chiesa”.

La struttura del tabernacolo è molto complessa sia nella forma che nell’iconografia; si tratta, infatti, di una macchina architettonica dalle dimensioni poderose. L’opera parla un linguaggio rinascimentale nelle facce timpanate, nelle lesene, nelle colonne scanalate, con capitelli decorati a foglie d’acanto e a volute, nei festoni di fiori e frutti che decorano i lati obliqui e sottolineano il raccordo tra i lati principali. Ogni lato del ciborio, completamente dorato, è impreziosito da pitture che compongono un programma iconografico complesso e interessante, leggibile sia in rapporto all’oggetto in sé, come contenitore del Santissimo Sacramento, sia in riferimento alla devozione del borgo di Monterosso da dove proviene l’opera. Nel registro principale, sono rappresentati il Cristo risorto, la Vergine Annunciata e due angeli oranti. Quattro figure dipinte compaiono anche sul registro superiore: Santa Caterina da Siena, Sant’Antonio da Padova, San Cristoforo e la Vergine dell’Apocalisse, di rosso vestita e in preda ai dolori del parto. che è la rappresentazione di Maria come primo tabernacolo, quindi strettamente legata all’oggetto stesso sul quale compare.


Madonna col Bambino

Jacopo Spinolotto

1474

Tempera su tavola


La Madonna col Bambino di Jacopo Spinolotto costituisce un’importante testimonianza della produzione artistica quattrocentesca spezzina. L’opera proviene dalla pieve romanica di San Venerio, dove fu rubata nel 1974. Arricchisce la collezione del Museo Diocesano dal 2007 a seguito di un fortunoso recupero compiuto dai Carabinieri del Corpo Speciale di Tutela del Patrimonio Artistico Nazionale. La tavola, forse parte di un antico polittico, rappresenta la Vergine in trono che indossa un abito a motivi floreali ed un manto bordato in oro, sul quale è ricamato il simbolo mariano della stella ad otto punte. Il tessuto dell’abito e il drappo appoggiato al trono conferiscono all’opera un tono prezioso e scintillante. In grembo alla madre e da questa teneramente mostrato compare Gesù Bambino benedicente. La pedana lignea reca un’iscrizione che chiarisce l’autore e la data del dipinto JACOBUS SPINOLOTVS DE SP[ED]IA PINXIT 1[47]4. L’insieme e i particolari come il pavimento preso di scorcio, i dettagli preziosi delle vesti, degli intagli del trono e la fissità mimica dei volti denotano la cultura figurativa del pittore orientata al gusto che si impone in Liguria verso la fine del ‘400, nutrita di eleganze tardogotiche, forti influssi della pittura provenzale e timide aperture alle prime lezioni del Rinascimento.


La Grande Madre dalle tre mani

Scuola della Russia centrale

XVIII secolo

Tempera su tavola


L’icona proveniente dalla prestigiosa raccolta dedicata a La Gran Madre delle tre mani del professor Renzo Matero (1930 – 2012), medico e chirurgo luminare della chirurgia della mano nel panorama italiano e internazionale, fu donata al Museo Diocesano della Spezia nel 2019 insieme a un centinaio di pezzi, per volere della Signora Maria Giovanna Bragantini Mantero. L’opera è dipinta a tempera all’uovo su tavola e vede la Gran Madre delle tre mani con la terza mano appesa al collo, come probabilmente era nella tradizione più antica dell’iconografia, secondo l’ipotesi che San Giovanni Damasceno non avesse dipinto o fatto dipingere la terza mano sull’icona da lui venerata, ma vi avesse fatto applicare una mano d’argento. Sul lato sinistro dell’immagine compare l’angelo custode, a destra lo stesso Damasceno.


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